L'archetipo di Dionisio
di Franco De Faveri
A Gino
di Lucien Rebouah
DIONISIACA

L'archetipo di Dionisio
di Franco De Faveri

Contemplando le meravigliose fantasmagorie di Gino Fossali, viene da dire a quest'epoca di rumoroso vuoto: mondo accorgiti dell’arte e dell’artista, ti dice la tua essenza. Questa essenza del mondo Fossali la dice col suo ritorno al mito, cosa che già in sé non è poco interessante, dopo la demitologizzazione che fino a ieri imperava nella nostra cultura occidentale, dominata dalla scientificità e dalla storicità. E, rileviamo, il suo tributo alla storicità l’ha pagato Fossali stesso che ha cominciato come pittore della storia e dell’impegno politico. Non che Fossali nel periodo della sua arte “mitologica” (apertosi nei tardi anni Settanta e di cui qui si presentano i risultati forse più pregnanti), sia meno “impegnato”. È soltanto che il suo impegno ha mutato carattere e, vorrei dire, s’è approfondito: l’impegno per la vita giusta è diventato religione della Vita. Perché proprio questo, mi pare, dice il significato del suo ritorno al mito. Prima di approfondire questo punto, ricordiamo che la rivoluzione interiore si accompagna anche a una rivoluzione dello strumento: senza abbandonare del tutto l’olio, Fossali sviluppa una sua originale tecnica del pastello ad olio, che gli permetterà di ottenere risultati raffinatissimi, verificabili nelle opere qui catalogate. È il momento più “mediterraneo” della sua arte, in cui i variegati riflessi che Fossali “ruba” al salso marino, esprimono perfettamente la mediterraneità del mito qui tematizzato.

Il mito, infatti, che cos’è? Mito significa parola, parola essenziale, quindi racconto di un evento, ma, questo, in senso ben diverso da come concepisce l’evento la storia nel suo significato moderno, che narra invece quello che dal punto di vista del mito sarebbe piuttosto il caduco e l’effimero. L’evento mitico è evento essenziale, normativo (ci insegnano Mircea Eliade, Gustav Jung, Lévi-Strauss…), perché il mito abbraccia la totalità dell’essere. Il mito quindi non è mai finzione, ma storia vera; un racconto di eventi reali che hanno avuto luogo nel passato primigenio e che si ripetono oggi e si ripeteranno in futuro, conservando sempre in sé, presente, l’origine. Il mito allora non è una riflessione su fatti, ma una attualità essenziale che ricrea, di volta in volta, la Vita, la nostra vita; grazie alla mediazione del mito, il mondo riceve compattezza e durata. Viceversa, l’evento effimero che si compie nel tempo diventa eterno nel mito: il quotidiano (il sorgere e tramontare del sole, per esempio) viene raccontato dal mito come evento unico e decisivo della vita cosmica e umana. L’evento mitico viene quindi proiettato in una sfera che sta al di là del tempo, il tempo della storia nel quale la modernità resta prigioniera, incapace di vedere altro che i mezzi tecnici per raggiungere l’unico suo scopo, l’utile, il guadagno. Il mito invece sfonda i confini angusti della nostra volontà egoistica, che è caccia all’avere e che per avere sempre di più non si limita ad impossessarsi della Natura, a dominarla, ma non esita, sfruttandola, a distruggerla, come distrugge la bellezza che, per definizione non serve – cioè non è utile a nulla e non si lascia asservire.

Abbiamo così, senza parere, toccato molti punti della riflessione di Fossali sul mito, che, per caratterizzare più da vicino, vogliamo cogliere dapprima in un momento emblematico della sua parabola, cioè nel trittico La presa del potere dell’Olimpo (1979). Il trittico “rivisita” il frontone occidentale del tempio di Zeus ad Olimpia, che rappresentava la lotta dei Centauri e dei Lapiti. A tale lotta partecipa Apollo, collocato esattamente sull’asse del frontone nell’atto di uccidere un centauro. Fossali trascura completamente il dettaglio mitologico, per proporre una sua attualizzazione creativa dell’evento. Semanticamente, l’interpretazione è semplice: che sia proprio Apollo a sintetizzare l’intero Olimpo (piuttosto che Zeus, ricordiamo che nel tempio si trovava la statua di Zeus, il capolavoro assoluto di Fidia) è profondamente significativo; più che una semplice figura divina, Apollo è l’eponimo di un principio, è l’ipostasi dell’apollineo: la componente della cultura greca, cui si oppone il dionisiaco (secondo la teorizzazione nietzschiana), viene qui rappresentato dal Centauro (che è stretto parente del dionisiaco Satiro, figura mista di cavallo e d’uomo, come vedremo). Ricorderemo che Nietzsche vedeva la diade di Apollo e Dioniso come quella di due fratelli nemici, nemici dunque, ma fratelli; una opposizione dialettica, quindi, che è valida solo come sintesi, come concordia discors generatrice di armonia: guai se uno degli elementi della sintesi distrugge l’altro. È quanto vuole suggerirci Fossali, se la mia interpretazione è esatta: il trionfo definitivo di Apollo su Dioniso significa l’assolutizzazione della ratio, ridotta a ratio tecnologica, che finirà per distruggere la vita: nel trittico, il pannello di destra rappresenta proprio questo.

Rispetto a questa messa a fuoco, così suggestiva ed emblematica, della poetica mitologica di Fossali, le opere che qui si espongono (tutte inedite o quasi) rappresentano un momento ulteriore assai significativo. I protagonisti sono ancora Apollo e Dioniso, o meglio si dirà: Dioniso e Apollo. Dioniso, infatti, domina qui quasi incontrastato, direttamente (n. 16, Dioniso e Arianna) o attraverso le figure più caratteristiche del suo seguito: i Satiri (n. 3, n. 19) e i Sileni (n. 10, n. 15), le Baccanti (n. 12, n. 14), le Menadi (n. 10), le Ninfe (n. 3, n. 19) o le Naiadi (Ninfe dell’acqua; n. 8), che tradizionalmente fanno compagnia a Satiri e Sileni, affinché abbiano qualcuna da insidiare. Apollo invece, non solo non appare più dotato di centralità, ma non compare direttamente più. Egli, tuttavia è presente in certo modo sullo sfondo, come Apollo Pizio – nella sua ipostasi, vale a dire, meno “luminosa” e razionale, cioè come dio tellurico, pre-greco, mediterraneo, dell’ispirazione profonda, dell’inconscio.

Dioniso, nella mitologia greca, è figura divina quanto mai complessa; complessità che l’arte di Fossali coglie dapprima con un’icona parlante, rappresentando Dioniso preso dalla danza con Arianna. L’elemento della danza è essenziale a Dioniso in un significato pregnante, perché coglie il suo essere profondo e al di là, in esso, l’essere in assoluto nel suo aspetto tragico di resurrezione e morte, di cui Dioniso è appunto il simbolo. Dioniso infatti, come noto, è dio mortale che viene lacerato brano a brano da potenze nemiche, ma poi risuscita. Egli è quindi ipostasi della vita della Terra nella vicenda delle stagioni e delle generazioni, il ritmo cosmico, insomma, si esprime in Dioniso appunto attraverso il ritmo della danza… Fossali rappresenta tutto questo come divinizzazione dell’umano (n. 16): l’uomo-dio che è Dioniso balza, letteralmente, in primo piano assieme alla donna-dea Arianna, entrambi sospesi tra la terra e il cielo, staccati dal suolo, aerei nella danza. Per dare ad essi il massimo rilievo, li accompagnano due diminutive figure di satiretti (riconoscibili dalle corna e dagli equini zoccoli), formando due blocchi figurali contrapposti, tra i quali Arianna, bacchicamente scarmigliata e bionda, lancia un ponte mediante quello che pare uno strumento musicale (un tamburello, un sistro?) La divisione in blocchi viene confermata dalla linea sghemba che corre parallela al gruppo Dioniso + satiretto; essa individua insieme due zone di colore, quella di Dioniso, in cui, sul confine, è dominante il verde che poi trascolora nel lilla che impregna le due figure; l’altra zona, di Arianna, viene segnata dal giallo del netto confine (che pare irradiarsi dalla chioma bionda di Arianna); il lilla-violetto che occupa la seconda parte di questa zona, sulla destra del quadro, riconduce l’opposizione (che è quella, anche, dell’elemento maschile e femminile) in unità e armonia: non dimentichiamo che Arianna è donna-dea quanto mai saggia: possiede l’arte di uscire dal labirinto. Questo, secondo Jung, è una simbolizzazione archetipica della morte. Dal tema propriamente dionisiaco sembrerebbe che ci allontanassimo con Tauromachia (n. 4): quale è il rapporto con Dioniso di questa immagine? In realtà però il rapporto c’è: il toro compare nel mito congiunto a Dioniso in due modi: come Minotauro (attraverso il nesso con Arianna) e per il fatto che Dioniso stesso è figura divina teriomorfa, che assume cioè proprio l’aspetto di un toro (come si sa dagli inni orfici). Fossali, per quanto amasse approfondire culturalmente i temi che trattava, potrà aver saputo di questi rapporti nascosti o meno; tanto meglio, direi, se non lo sapeva: parlava in lui e per lui l’archetipo.

Due parole non sono forse superflue sulle figure dei Satiri e dei Sileni che sono di fatto equivalenti (e, come ibrido umano-equino, parenti dei Centauri). Il Satiro-Sileno non è solo, originariamente, un demone dei boschi, che come ogni demone agisce capricciosamente, potendo essere maligno o benevolo per l’uomo; egli è anche figura tanatologica, un segno della morte: catturato dal mitico re Mida, gli dà il suo vaticinio ferale: meglio è per l’uomo non essere mai nato, una volta nato, raggiungere al più presto l’Hades. Come si vede, per varie vie era destinato a entrare nella sfera di Dioniso, diventando un satellite del dio, che accompagna sempre; in quanto Satiro viene rappresentato come giovane, mentre Sileno ha l’aspetto d’un vecchio. E’ poi tradizionale la congiunzione del Satiro-Sileno con le Ninfe, di cui è una specie di controparte mascolina; la sottolineatura del momento erotico e francamente sessuale che dà a tale figura Fossali (cfr. il n. 2, assai bello) ha la sua origine nella tradizione mitologica, come mostrano le pitture sui vasi greci. Interessante è poi che Fossali riconduca il Satiro e il Sileno alla loro matrice originale ippica, ignorando lo sviluppo ellenistico che invece accosta queste figure a Pan, dandogli i tratti del capro. Quanto alla figura del Fauno, esso è figura latina, originariamente un vecchio dio protettore dei pastori, che produce le voci misteriose che gli antichi erano convinti di percepire nella natura; già questo lo conduce nelle vicinanze di Pan con cui finisce per identificarsi; per questa via si accosta poi al Satiro. Fossali ce lo mostra mentre insidia una Ninfa (n. 11), una costruzione che esalta la diagonale (da sud-ovest a nord-est), dentro una nube di verde e di violetto; lo stesso tema ispira anche l’Hommage à Debussy (n. 9), che fa eco all’omaggio che Debussy, a sua volta, fa al Mallarmé de l’Après-midi d’un Faune. Fossali riduce a una sola le due Ninfe “perpetuate” dal Fauno mallarmeiano, mostrandola adagiata sulla diagonale, tra una campitura superiore gialla e l’altra in cui predomina il verde. Il giallo che disegna la ninfa si staglia su bordi violacei. Il giallo predomina anche nella figura del Fauno, in basso sulla sinistra, che non nasconde le sue intenzioni voluttuose…

Non ci allontaniamo dal nostro plesso dionisiaco con le opere che introducono Orfeo (n. 13). Orfeo, come si sa, è una figura numinosa cui si riconduce l’“invenzione” della musica e della poesia, il che lo pone in strettissimo rapporto con la danza; tutto ciò ha una essenziale dimensione cosmica: la lira che è suo attributo (e con essa lo rappresenta Fossali), mediante le sue sette corde proietta il concetto d’armonia nella sfera degli astri: sette sono le corde come, per gli antichi, i pianeti; l’armonia musicale è armonia del cosmo. Già questo basta ad accostare Orfeo a Dioniso, ma il rapporto è più stretto: Orfeo scende all’Hades come Dioniso; Orfeo viene sbranato dalle Menadi (che Fossali fa danzare coi Sileni, n. 10) Orfeo, poi, è fondatore della religione misterica il cui culto ha uno dei suoi fulcri in Dioniso.

Orfeo ci viene mostrato da Fossali nella sua visita all’oracolo delfico; oltre a Orfeo, sulla destra, scorgiamo sulla sinistra il tripode nella cui coppa sta accoccolata la Pizia, lei stessa dotata (come pare) di uno strumento musicale, vestita di una tunica bianca. Ovunque è soffuso il giallo, violetto, come la coppa del tripode, e il pitone che pende da essa e abbraccia colle sue spire una delle gambe del tripode.

Tra i visitatori di Delfi Fossali ci mostra qui, oltre a Orfeo, anche Oreste (n. 5), il che richiede due parole di commento. Secondo la tradizione tragica, Oreste si reca al tempio delfico per espiare il delitto commesso (su istigazione di Apollo) uccidendo la madre Clitemnestra, per vendicare il padre Agamennone. L’espiazione richiede tradizionalmente un bagno di sangue che però in questo caso non ottiene lo scopo: il delitto di Oreste ha radici profonde, etiche; solo un’istanza adeguata potrà farlo e sarà il tribunale degli dei. L’opera (su cartone telato) mostra Oreste accasciato su un sedile verde, i contorni della figura ocra fortemente segnati da ombre violacee (il colore liturgico del lutto); il tutto si dispone ancora diagonalmente e l’eco del verde commisto al viola confluisce poi verso l’angolo nord-est del riquadro e prende forma umana, ne vediamo i piedi sospesi nel vuoto: si tratta di una delle Furie che perseguono l’eroe tragico? Ci si può chiedere se anche il verde abbia un suo significato, rappresenti, vale a dire, la speranza. O, generalizzando la questione, ci si può domandare se e in quale misura il colore in cui il Fossali era (venezianamente) maestro, abbia carattere (anche) simbolico.

Un aspetto interessante della ricerca di Fossali è la comparsa defilata e quasi spettrale accanto alle figure del mito, commista a esse, di quell’elemento del nostro quotidiano vivere che è diventata ormai la televisione: cosa vuole significare Fossali con essa, vuole darci un monito, una deprecazione, una ironia? Forse un po’ di tutte queste cose commiste. In ogni caso, concludendo, Fossali, rifacendosi al mito, ricupera tutta le linfa vitale che circola in esso, e, collocando i suoi racconti nel tempo dell’origine, intende pervenire a una rifondazione della vita umana nel segno dell’arte. Egli risveglia così, in nome di un nuovo e completo umanesimo, il senso della religiosità dionisiaca del vivere, della gioiosità dell’Eros.