Contemplando le meravigliose fantasmagorie
di Gino Fossali, viene da dire a quest'epoca di rumoroso vuoto:
mondo accorgiti dell’arte e dell’artista, ti dice la
tua essenza. Questa essenza del mondo Fossali la dice col suo ritorno
al mito, cosa che già in sé non è poco interessante,
dopo la demitologizzazione che fino a ieri imperava nella nostra
cultura occidentale, dominata dalla scientificità e dalla
storicità. E, rileviamo, il suo tributo alla storicità
l’ha pagato Fossali stesso che ha cominciato come pittore
della storia e dell’impegno politico. Non che Fossali nel
periodo della sua arte “mitologica” (apertosi nei tardi
anni Settanta e di cui qui si presentano i risultati forse più
pregnanti), sia meno “impegnato”. È soltanto
che il suo impegno ha mutato carattere e, vorrei dire, s’è
approfondito: l’impegno per la vita giusta è diventato
religione della Vita. Perché proprio questo, mi pare, dice
il significato del suo ritorno al mito. Prima di approfondire questo
punto, ricordiamo che la rivoluzione interiore si accompagna anche
a una rivoluzione dello strumento: senza abbandonare del tutto l’olio,
Fossali sviluppa una sua originale tecnica del pastello ad olio,
che gli permetterà di ottenere risultati raffinatissimi,
verificabili nelle opere qui catalogate. È il momento più
“mediterraneo” della sua arte, in cui i variegati riflessi
che Fossali “ruba” al salso marino, esprimono perfettamente
la mediterraneità del mito qui tematizzato.
Il mito, infatti, che cos’è?
Mito significa parola, parola essenziale, quindi racconto di un
evento, ma, questo, in senso ben diverso da come concepisce l’evento
la storia nel suo significato moderno, che narra invece quello che
dal punto di vista del mito sarebbe piuttosto il caduco e l’effimero.
L’evento mitico è evento essenziale, normativo (ci
insegnano Mircea Eliade, Gustav Jung, Lévi-Strauss…),
perché il mito abbraccia la totalità dell’essere.
Il mito quindi non è mai finzione, ma storia vera; un racconto
di eventi reali che hanno avuto luogo nel passato primigenio e che
si ripetono oggi e si ripeteranno in futuro, conservando sempre
in sé, presente, l’origine. Il mito allora non è
una riflessione su fatti, ma una attualità essenziale che
ricrea, di volta in volta, la Vita, la nostra vita; grazie alla
mediazione del mito, il mondo riceve compattezza e durata. Viceversa,
l’evento effimero che si compie nel tempo diventa eterno nel
mito: il quotidiano (il sorgere e tramontare del sole, per esempio)
viene raccontato dal mito come evento unico e decisivo della vita
cosmica e umana. L’evento mitico viene quindi proiettato in
una sfera che sta al di là del tempo, il tempo della storia
nel quale la modernità resta prigioniera, incapace di vedere
altro che i mezzi tecnici per raggiungere l’unico suo scopo,
l’utile, il guadagno. Il mito invece sfonda i confini angusti
della nostra volontà egoistica, che è caccia all’avere
e che per avere sempre di più non si limita ad impossessarsi
della Natura, a dominarla, ma non esita, sfruttandola, a distruggerla,
come distrugge la bellezza che, per definizione non serve –
cioè non è utile a nulla e non si lascia asservire.
Abbiamo così, senza parere, toccato
molti punti della riflessione di Fossali sul mito, che, per caratterizzare
più da vicino, vogliamo cogliere dapprima in un momento emblematico
della sua parabola, cioè nel trittico La
presa del potere dell’Olimpo (1979). Il trittico
“rivisita” il frontone occidentale del tempio di Zeus
ad Olimpia, che rappresentava la lotta dei Centauri e dei Lapiti.
A tale lotta partecipa Apollo, collocato esattamente sull’asse
del frontone nell’atto di uccidere un centauro. Fossali trascura
completamente il dettaglio mitologico, per proporre una sua attualizzazione
creativa dell’evento. Semanticamente, l’interpretazione
è semplice: che sia proprio Apollo a sintetizzare l’intero
Olimpo (piuttosto che Zeus, ricordiamo che nel tempio si trovava
la statua di Zeus, il capolavoro assoluto di Fidia) è profondamente
significativo; più che una semplice figura divina, Apollo
è l’eponimo di un principio, è l’ipostasi
dell’apollineo: la componente della cultura greca, cui si
oppone il dionisiaco (secondo la teorizzazione nietzschiana), viene
qui rappresentato dal Centauro (che è stretto parente del
dionisiaco Satiro, figura mista di cavallo e d’uomo, come
vedremo). Ricorderemo che Nietzsche vedeva la diade di Apollo e
Dioniso come quella di due fratelli nemici, nemici dunque, ma fratelli;
una opposizione dialettica, quindi, che è valida solo come
sintesi, come concordia discors
generatrice di armonia: guai se uno degli elementi della sintesi
distrugge l’altro. È quanto vuole suggerirci Fossali,
se la mia interpretazione è esatta: il trionfo definitivo
di Apollo su Dioniso significa l’assolutizzazione della ratio,
ridotta a ratio tecnologica, che
finirà per distruggere la vita: nel trittico, il pannello
di destra rappresenta proprio questo.
Rispetto a questa messa a fuoco, così
suggestiva ed emblematica, della poetica mitologica di Fossali,
le opere che qui si espongono (tutte inedite o quasi) rappresentano
un momento ulteriore assai significativo. I protagonisti sono ancora
Apollo e Dioniso, o meglio si dirà: Dioniso e Apollo. Dioniso,
infatti, domina qui quasi incontrastato, direttamente (n.
16, Dioniso e Arianna)
o attraverso le figure più caratteristiche del suo seguito:
i Satiri (n.
3, n. 19)
e i Sileni (n.
10, n.
15), le Baccanti (n.
12, n. 14),
le Menadi (n. 10),
le Ninfe (n. 3,
n. 19) o le Naiadi
(Ninfe dell’acqua; n.
8), che tradizionalmente fanno compagnia a Satiri e Sileni,
affinché abbiano qualcuna da insidiare. Apollo invece, non
solo non appare più dotato di centralità, ma non compare
direttamente più. Egli, tuttavia è presente in certo
modo sullo sfondo, come Apollo Pizio – nella sua ipostasi,
vale a dire, meno “luminosa” e razionale, cioè
come dio tellurico, pre-greco, mediterraneo, dell’ispirazione
profonda, dell’inconscio.
Dioniso, nella mitologia greca, è figura
divina quanto mai complessa; complessità che l’arte
di Fossali coglie dapprima con un’icona parlante, rappresentando
Dioniso preso dalla danza con Arianna. L’elemento della danza
è essenziale a Dioniso in un significato pregnante, perché
coglie il suo essere profondo e al di là, in esso, l’essere
in assoluto nel suo aspetto tragico di resurrezione e morte, di
cui Dioniso è appunto il simbolo. Dioniso infatti, come noto,
è dio mortale che viene lacerato brano a brano da potenze
nemiche, ma poi risuscita. Egli è quindi ipostasi della vita
della Terra nella vicenda delle stagioni e delle generazioni, il
ritmo cosmico, insomma, si esprime in Dioniso appunto attraverso
il ritmo della danza… Fossali rappresenta tutto questo come
divinizzazione dell’umano (n.
16): l’uomo-dio che è Dioniso balza, letteralmente,
in primo piano assieme alla donna-dea Arianna, entrambi sospesi
tra la terra e il cielo, staccati dal suolo, aerei nella danza.
Per dare ad essi il massimo rilievo, li accompagnano due diminutive
figure di satiretti (riconoscibili dalle corna e dagli equini zoccoli),
formando due blocchi figurali contrapposti, tra i quali Arianna,
bacchicamente scarmigliata e bionda, lancia un ponte mediante quello
che pare uno strumento musicale (un tamburello, un sistro?) La divisione
in blocchi viene confermata dalla linea sghemba che corre parallela
al gruppo Dioniso + satiretto; essa individua insieme due zone di
colore, quella di Dioniso, in cui, sul confine, è dominante
il verde che poi trascolora nel lilla che impregna le due figure;
l’altra zona, di Arianna, viene segnata dal giallo del netto
confine (che pare irradiarsi dalla chioma bionda di Arianna); il
lilla-violetto che occupa la seconda parte di questa zona, sulla
destra del quadro, riconduce l’opposizione (che è quella,
anche, dell’elemento maschile e femminile) in unità
e armonia: non dimentichiamo che Arianna è donna-dea quanto
mai saggia: possiede l’arte di uscire dal labirinto. Questo,
secondo Jung, è una simbolizzazione archetipica della morte.
Dal tema propriamente dionisiaco sembrerebbe che ci allontanassimo
con Tauromachia (n.
4): quale è il rapporto con Dioniso di questa immagine?
In realtà però il rapporto c’è: il toro
compare nel mito congiunto a Dioniso in due modi: come Minotauro
(attraverso il nesso con Arianna) e per il fatto che Dioniso stesso
è figura divina teriomorfa, che assume cioè proprio
l’aspetto di un toro (come si sa dagli inni orfici). Fossali,
per quanto amasse approfondire culturalmente i temi che trattava,
potrà aver saputo di questi rapporti nascosti o meno; tanto
meglio, direi, se non lo sapeva: parlava in lui e per lui l’archetipo.
Due parole non sono forse superflue sulle
figure dei Satiri e dei Sileni che sono di fatto equivalenti (e,
come ibrido umano-equino, parenti dei Centauri). Il Satiro-Sileno
non è solo, originariamente, un demone dei boschi, che come
ogni demone agisce capricciosamente, potendo essere maligno o benevolo
per l’uomo; egli è anche figura tanatologica, un segno
della morte: catturato dal mitico re Mida, gli dà il suo
vaticinio ferale: meglio è per l’uomo non essere mai
nato, una volta nato, raggiungere al più presto l’Hades.
Come si vede, per varie vie era destinato a entrare nella sfera
di Dioniso, diventando un satellite del dio, che accompagna sempre;
in quanto Satiro viene rappresentato come giovane, mentre Sileno
ha l’aspetto d’un vecchio. E’ poi tradizionale
la congiunzione del Satiro-Sileno con le Ninfe, di cui è
una specie di controparte mascolina; la sottolineatura del momento
erotico e francamente sessuale che dà a tale figura Fossali
(cfr. il n. 2,
assai bello) ha la sua origine nella tradizione mitologica, come
mostrano le pitture sui vasi greci. Interessante è poi che
Fossali riconduca il Satiro e il Sileno alla loro matrice originale
ippica, ignorando lo sviluppo ellenistico che invece accosta queste
figure a Pan, dandogli i tratti del capro. Quanto alla figura del
Fauno, esso è figura latina, originariamente un vecchio dio
protettore dei pastori, che produce le voci misteriose che gli antichi
erano convinti di percepire nella natura; già questo lo conduce
nelle vicinanze di Pan con cui finisce per identificarsi; per questa
via si accosta poi al Satiro. Fossali ce lo mostra mentre insidia
una Ninfa (n. 11),
una costruzione che esalta la diagonale (da sud-ovest a nord-est),
dentro una nube di verde e di violetto; lo stesso tema ispira anche
l’Hommage à Debussy
(n. 9), che fa
eco all’omaggio che Debussy, a sua volta, fa al Mallarmé
de l’Après-midi d’un
Faune. Fossali riduce a una sola le due Ninfe “perpetuate”
dal Fauno mallarmeiano, mostrandola adagiata sulla diagonale, tra
una campitura superiore gialla e l’altra in cui predomina
il verde. Il giallo che disegna la ninfa si staglia su bordi violacei.
Il giallo predomina anche nella figura del Fauno, in basso sulla
sinistra, che non nasconde le sue intenzioni voluttuose…
Non ci allontaniamo dal nostro plesso dionisiaco
con le opere che introducono Orfeo (n.
13). Orfeo, come si sa, è una figura numinosa cui si
riconduce l’“invenzione” della musica e della
poesia, il che lo pone in strettissimo rapporto con la danza; tutto
ciò ha una essenziale dimensione cosmica: la lira che è
suo attributo (e con essa lo rappresenta Fossali), mediante le sue
sette corde proietta il concetto d’armonia nella sfera degli
astri: sette sono le corde come, per gli antichi, i pianeti; l’armonia
musicale è armonia del cosmo. Già questo basta ad
accostare Orfeo a Dioniso, ma il rapporto è più stretto:
Orfeo scende all’Hades come Dioniso; Orfeo viene sbranato
dalle Menadi (che Fossali fa danzare coi Sileni, n.
10) Orfeo, poi, è fondatore della religione misterica
il cui culto ha uno dei suoi fulcri in Dioniso.
Orfeo ci viene mostrato da Fossali nella sua
visita all’oracolo delfico; oltre a Orfeo, sulla destra, scorgiamo
sulla sinistra il tripode nella cui coppa sta accoccolata la Pizia,
lei stessa dotata (come pare) di uno strumento musicale, vestita
di una tunica bianca. Ovunque è soffuso il giallo, violetto,
come la coppa del tripode, e il pitone che pende da essa e abbraccia
colle sue spire una delle gambe del tripode.
Tra i visitatori di Delfi Fossali ci mostra
qui, oltre a Orfeo, anche Oreste (n.
5), il che richiede due parole di commento. Secondo la tradizione
tragica, Oreste si reca al tempio delfico per espiare il delitto
commesso (su istigazione di Apollo) uccidendo la madre Clitemnestra,
per vendicare il padre Agamennone. L’espiazione richiede tradizionalmente
un bagno di sangue che però in questo caso non ottiene lo
scopo: il delitto di Oreste ha radici profonde, etiche; solo un’istanza
adeguata potrà farlo e sarà il tribunale degli dei.
L’opera (su cartone telato) mostra Oreste accasciato su un
sedile verde, i contorni della figura ocra fortemente segnati da
ombre violacee (il colore liturgico del lutto); il tutto si dispone
ancora diagonalmente e l’eco del verde commisto al viola confluisce
poi verso l’angolo nord-est del riquadro e prende forma umana,
ne vediamo i piedi sospesi nel vuoto: si tratta di una delle Furie
che perseguono l’eroe tragico? Ci si può chiedere se
anche il verde abbia un suo significato, rappresenti, vale a dire,
la speranza. O, generalizzando la questione, ci si può domandare
se e in quale misura il colore in cui il Fossali era (venezianamente)
maestro, abbia carattere (anche) simbolico.
Un aspetto interessante della ricerca di Fossali
è la comparsa defilata e quasi spettrale accanto alle figure
del mito, commista a esse, di quell’elemento del nostro quotidiano
vivere che è diventata ormai la televisione: cosa vuole significare
Fossali con essa, vuole darci un monito, una deprecazione, una ironia?
Forse un po’ di tutte queste cose commiste. In ogni caso,
concludendo, Fossali, rifacendosi al mito, ricupera tutta le linfa
vitale che circola in esso, e, collocando i suoi racconti nel tempo
dell’origine, intende pervenire a una rifondazione della vita
umana nel segno dell’arte. Egli risveglia così, in
nome di un nuovo e completo umanesimo, il senso della religiosità
dionisiaca del vivere, della gioiosità dell’Eros. |